Ai corsi ci capita di sentire spesso di nonni che non legano i bimbi in auto “perché tanto facciamo solo pochi metri”, ma poi strabuzzano gli occhi quando diciamo che si può dare un coltello in mano a un bambino di 18 mesi. Come mai?
Il colpevole è la percezione del rischio che è soggettiva e dipende dalle nostre esperienze passate.
Io sono Corinna Garrone, un medico psicoterapeuta: mi occupo di bambini, adolescenti, adulti e sostegno genitoriale. Nel percorso di psicoterapia io e il mio paziente cerchiamo di comprendere insieme da dove viene il suo malessere e qual è il meccanismo del suo cervello che lo genera e lo fa perdurare, talvolta peggiorare, nel tempo. Una volta capito il processo che è avvenuto e la funzione che quel sintomo ha per lui, ecco che si apre una meravigliosa finestra sul cambiamento.
Oggi con questo articolo ti voglio raccontare come la nostra esperienza plasmi il cervello e faccia sì che possa reputare una cosa rischiosa o meno, basandosi su quanto già vissuto in passato.
Perché da bambini siamo più incoscienti di fronte al pericolo? Beh, perché abbiamo meno esperienza dalla nostra parte! Crescendo, in base al nostro temperamento, all’ambiente che ci circonda, alle caratteristiche delle nostre figure genitoriali e alle esperienze, diventiamo più o meno prudenti.
Da piccola mi lanciavo giù dai boschi di montagna con la mountain bike rigorosamente senza casco, oggi metto casco, stivali e giacca per andare in moto a comprare il pane.
Quando ci troviamo di fronte a una situazione nuova di cui dobbiamo valutare il rischio per poter agire in sicurezza, il nostro cervello cerca nella sua memoria situazioni simili che può aver vissuto: saranno queste esperienze passate e l’impatto che hanno avuto su di noi a guidare il nostro presente. A questo proposito il nostro formatore in Camillo, Martino, parlando di percezione del pericolo, cita sempre la frase: “uno squalo di plastica di 6 metri in un film degli anni ’70 ha rovinato una specie e terrorizza ancora oggi milioni di persone per l’etichetta che ha affibbiato agli squali bianchi, nonostante per causa loro i morti al mondo si contino sulle dita di una mano, e migliaia di studi scientifici sulla dannosità del fumo invece non riescono a far smettere di fumare nessuno”.
Più un ricordo è carico emotivamente, più avrà il potere di guidare le nostre scelte e più sarà facile rievocarlo con vividezza. Ognuno di noi si ricorda precisamente cosa stesse facendo nel 2011 quando è avvenuto l’attentato alle Torri Gemelle, questo perché è un ricordo ad alta carica emotiva.
Ma torniamo per un attimo al nonno che non vuole dare il coltello in mano al nipote di due anni. È molto facile che ognuno di noi abbia il ricordo di almeno un episodio in cui si sia tagliato con un coltello: inserendo i piatti in lavastoviglie, affettando le cipolle o il pane. Sicuramente meno probabile, fortunatamente, è avere il ricordo di un incidente stradale. È comprensibile quindi che un nonno, analizzando tra le sue esperienze passate, ritenga più rischioso dare in mano al nipotino un coltello piuttosto che non legarlo al seggiolino.
Ancora, quando dal comportamento pericoloso traiamo un immediato beneficio, la percezione del rischio diminuisce. Se sono di fretta e il mio bambino inizia ad urlare perché non vuole sedersi nel seggiolino, sarò portato a caricarlo in auto senza legarlo perché questo mi velocizzerà il compito. Se inoltre è un gesto diventato ormai abituale si assocerà anche l’illusione del controllo: “Ho sempre fatto così e non è mai successo niente”. Questo è particolarmente vero per gli attuali nonni: i seggiolini sono diventati obbligatori nel 1992, è probabile quindi che i nonni per molti anni abbiano portato i bimbi, noi del #Teamsopravvissuti, in auto senza assicurarli su sistemi di ritenuta.
Sempre più spesso ultimamente vengono pubblicati sui social video di crash test in cui si vede alla perfezione cosa accade a un bimbo in auto non legato in caso di impatto; eppure, anche questo sembra non fare effetto. Può succedere che il nostro cervello rimuova la percezione del rischio derivata da quei video perché sarebbe troppo stressante pensare a quel pericolo: ciò accade molto più facilmente se si pensa che non sia possibile proteggersi, “tanto se faccio un brutto incidente, non cambia che sia legato o no”.
Mi è capitato solo poche settimane fa di parlare con amici che mi hanno detto di non legare il bimbo sul seggiolino a volte: “non in autostrada che ovviamente è pericoloso, ma in città se dobbiamo fare poca strada va bene così. Se capitasse qualcosa sarebbe proprio destino”.
In realtà i dati non concordano con questo perché gli incidenti stradali sono più frequenti in tragitti molto brevi. Come mai c’è questo divario tra la realtà e il percepito? Gli incidenti autostradali arrivano più facilmente alla nostra attenzione perché, coinvolgendo più veicoli e persone ed essendo quindi più sensazionalistici, sono più frequentemente riportati da giornali e telegiornali, fino a sembrarci più probabili e più frequenti. Se a questo associamo la tendenza in alcuni casi a sopravvalutare le nostre capacità, l’esito di un incidente banale può essere catastrofico: quanti pensano di poter tenere e proteggere il bimbo con le proprie braccia in caso di impatto a bassa velocità?
Il nostro cervello in questo caso ci gioca contro: basta un unico incidente stradale a bassa velocità per determinare danni irreversibili o morte per un bambino non assicurato al sistema di ritenuta e gli incidenti in tragitti brevi e quindi a basse velocità sono molto più frequenti degli altri.
Ma qual è parte del cervello che si occupa di tutto questo? L’amigdala, una piccola parte di cervello, molto antica che si occupa delle emozioni, tra le quali la paura, e della memoria emotiva. L’amigdala, fa parte del cervello limbico che con cervello rettiliano e neocorteccia costituisce il cervello, secondo la teoria di MacLean. La teoria del cervello tripartito ci spiega come il cervello degli animali si sia evoluto nel tempo a partire dai rettili che possiedono solo la parte istintiva e più arcaica (il cervello rettiliano), passando per i mammiferi in cui si è aggiunta la competenza sociale ed emotiva (il cervello limbico) fino ad arrivare all’uomo che con la neocorteccia si è affinato e si è potuto dedicare al pensiero astratto.
Questa stessa evoluzione ci accompagna in tutte le fasi della nostra vita: da bambini agiamo come piccole lucertole, per istinto di sopravvivenza, in adolescenza siamo pervasi dai sentimenti e dalle emozioni, nell'età adulta è la ragione a prevalere e a tenere sotto controllo gli altri aspetti. Spesso è proprio questo controllo, quando si disregola, in un senso o nell'altro, a dare origine al nostro malessere.
L’amigdala dicevamo, si occupa tra le altre cose della memoria emotiva: è il meccanismo per cui se ho un ricordo ad alta carica emotiva questo più probabilmente guiderà i miei comportamenti.
Quando percepiamo uno stimolo l’amigdala entra in funzione e cerca tra le esperienze passate se vi sia qualcosa di somigliante. Se lo stimolo viene valutato come pericoloso l'amigdala attiva una serie di strutture (ricordate il cervello rettiliano di poco fa?) che ci aiutano ad affrontare quel pericolo: è la famosa “reazione di lotta e fuga” in cui abbiamo attivazione muscolare, aumento della frequenza cardiaca, broncodilatazione ecc. Una volta affrontato il pericolo l'amigdala prende l'esperienza, la arricchisce della parte emotiva e la immagazzina sotto forma di ricordo.
Ora sappiamo come funziona la percezione del pericolo per ognuno di noi, ma come facciamo a migliorare da questo punto di vista? Conoscendoci.
Se siamo persone tendenzialmente reattive e prudenti probabilmente la nostra amigdala tenderà ad attivarsi più facilmente e di conseguenza ad attivare più facilmente il meccanismo di lotta e fuga: questo può giocarci contro. Quando questo meccanismo si attiva con troppa facilità o con troppa intensità, diventa stressante per il nostro organismo e il cervello può decidere di sostituire quel pensiero con un altro come “Tanto se è destino l'incidente lo faccio lo stesso”.
Un po' come ci capitava da studenti quando eravamo particolarmente in ansia per un'interrogazione: qualcuno si disregolava e andava nel panico, per qualcun altro entrava in azione la neocorteccia che generava dei pensieri atti a gestire la situazione per esempio: “Io mi sono preparato, poi andrà a fortuna se mi capiterà una domanda o l'altra”. Il fato è un ottimo capro espiatorio nei momenti in cui sentiamo che ci sta sfuggendo di mano la situazione.
Se siamo persone meno ansiose e reattive è possibile che non avremo una corretta percezione del pericolo: questo ci porterà a non prendere in considerazione la prevenzione, perché il rischio non avrà per noi una valenza dal punto di vista emotivo. In questo caso l'informazione ci può venire in aiuto! Hai letto per esempio l'articolo di Martino sul trasporto in auto dei bambini sotto i 4 anni? Lo trovi qui.
Cosa ci insegna tutto questo? Che spesso la conoscenza di noi stessi e di come funzioniamo è la chiave per poter gestire al meglio le situazioni. Ad oggi chi ha superato il tabù dello psicologo e ha trovato la persona giusta, vi dirà che ne ha avuto enormi benefici. Il benessere dei nostri bambini dipende in gran parte da noi: siamo le persone più grandi, più sagge, più gentili, più affettuose alle quali loro si affidano. Con questo articolo ho cercato di far capire quali sono le basi della percezione del pericolo e se questo aiuterà anche solo una famiglia sarà un enorme risultato!
Impariamo a conoscerci per proteggerli!
Vi aspetto nei commenti per le domande
Corinna
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